Grande Bellezza

CHIUDIAMO I BOOK TURISTICI E SPALANCHIAMO GLI OCCHI SU UN PANORAMA CARICO DI COLORI E DECANTATO DA MEZZO MONDO: LANGHE E ROERO, IL BACINO PIEMONTESE CHE METTE IN BELLA MOSTRA UN’ECCELLENZA ENOGASTRONOMICA CONOSCIUTA FINO OLTREOCEANO, RACCONTATA, RICORDATA E VISSUTA CON TRE GRANDI CHEF ITALIANI. UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DI UNA TRADIZIONE SEMPLICE, TRA LUNGHI FILARI, DOLCI MASSAIE E GENEROSI ORTI.

PRIMA TAPPA: IL ROERO SECONDO PALLUDA

Nessun volo oltreconfine. Per arrivare nel Roero imbocchiamo una di quelle stradine che si addentrano fra la Liguria e l’Astigiano, terre che il mare invase qualche milione di anni fa con la ricca scorta di detriti che oggi ci restituisce questa rara biodiversità. Arriviamo fra le curve del Cuneese, cullati da un continuo saliscendi tra tornanti e tralci di viti: un panorama che ci conduce alla primissima sosta dall’ambasciatore gastronomico di questo regno. Davide Palluda. L’appuntamento con lo chef è a Montà (CN), ai piedi delle Rocche del Roero, un paradiso terrestre per paleontologi e naturalisti, dissacrato da pareti nude, picchi rocciosi e guglie vertiginose. Dopo qualche minuto di riscaldamento si parte per il percorso suggerito, con un leggero sottofondo di chiacchiere «È dal ‘95 che sfido questi sentieri, quando arrivai giusto in tempo per l’apertura dell’Enoteca Regionale del Roero e dell’annesso Ristorante All’Enoteca giù a Canale. In quegli anni la regione spalanca le porte delle enoteche più timide, e io decido di farmi avanti. Ero poco più che ventenne, ma non lo nascondo: avevo già l’ego di uno chef». Non è figlio d’arte culinaria, ma ha preso tutto dalla simbiosi nata con i produttori del territorio, un allenamento teso alla pratica, alle sensazioni e soprattutto all’ascolto. Proseguiamo ripidi senza perdere il passo, perché il racconto incalza «Devo tanto ai produttori, soprattutto a Luigi Castellotto: lui è un uomo di altri tempi che saprebbe disegnare a occhi chiusi l’albero genealogico del Roero. Ed è ancora uno dei pochi contadini che non ha spinato il proprio terreno per far spazio alle vigne, ma che ha protetto pere, prugne e le sue pesche del Porretto, specie di frutta antichissime che con gli anni mi ha permesso di conoscere». La salita non risparmia nessuno, e questo abile cantastorie non concede tregua. Ci trascina in una sfilata di orchidee selvatiche che si estende intorno alle selvagge e labirintiche Rocche, dove ci concede solo qualche minuto di leggero defaticamento all’ombra della verdissima vegetazione. Lui corre, corre sempre, in cucina e tra questi boschi in veste di sportivo runner e, anche standogli dietro, va a finire che si perde la cognizione del tempo e in un attimo si torna al passato. Come quando frena il passo e accenna impaziente alla storia delle monferrine, «Quelle ragazze… Partivano dalle colline del Monferrato per raggiungere Torino solo per servire le tavole delle grandi famiglie: è grazie a loro se il Roero oggi è diventato la culla della tradizione enogastronomica piemontese, soprattutto per le tecniche di cucina che hanno ricamato sulle nostre tavole. Tecniche che ho rubato dopo aver capito che per fare un passo avanti, avrei dovuto farne altri 4 o 5 indietro». Storie che Davide snocciola nei boschi e interpreta a tavola, dove condisce ogni piatto con la sua vinaigrette di memoria. Ma lasciamo allora il variopinto parquet ai piedi delle Rocche, per raggiungere quello ottocentesco dell’antica sala de All’Enoteca nel centro di Canale, dove Davide ci fa accomodare al tavolo che si affaccia curioso sul terrazzino.

La sua cucina non si nasconde certo dietro alla memoria della tradizione, ma anzi schiva questa parola perché «è un termine meraviglioso che va rispettato. La mia vuole essere una cucina di materia, di prodotto, e mai tradizionale, che sappia rendere giustizia ai valori che ho assorbito in questi anni». Come accade nel suo elogio al territorio, Fassona dalla testa a piedi: carne cruda e marinata, parte del midollo, brodo, consommé, zampino fritto, lingua e testina. Un bouquet di consistenze che dal ‘99 rivendica anni e anni spesi a studiare il mondo carnivoro, messo alle strette dalla “Mucca Pazza”.

Un esorcismo stellato che chiunque considererebbe efficace. Ma se invece puntassimo a qualcosa di meno lavorato, come qualche trattoria locale? A questa domanda lo sguardo furbetto di Davide scompare sotto le palpebre, rapito da una visione mistica: «Gemma, lei è monumentale. Lo assicuro, c’è da rimanere folgorati dalle sue qualità sciamaniche. Immaginate una. donna di una certa età con una saggezza casalinga e l’aria sbarazzina di una massaia, che da illo tempore impasta a mano fino a 90 uova al giorno per i tagliolini dell’indomani. Quasi da non credere, ma le sue braccia erculee non mentono». Salame cotto e crudo, carne condita alla vecchia maniera, vitello tonnato, insalata russa e quando va bene un pugnetto di acciughe al verde. Tajarin al ragù di salciccia, ravioli del plin, tenero arrosto e coniglio in umido. E, dulcis in fundo, bunet, strudel di mele e meringata. Tutto all’inconcepibile prezzo di circa 30 euro, prenotando esclusivamente con qualche stagione di anticipo. Un menu immutato da anni che l’Osteria Da Gemma, a Roddino, mette al riparo da qualsiasi interpretazione moderna con una qualità nella media, altissima, piemontese.

SECONDA TAPPA: LE LANGHE TRA I RICORDI DI MAMMOLITI

Lasciamo questa strategica posizione nel centro storico di Canale, per scendere verso le rispettatissime Langhe, direzione Guarene. Circondati dalle morbide colline e dagli alti castelli fiabeschi, sentirsi bambini è un attimo. Soprattutto quando ci imbattiamo in una delle panchine giganti di BIG BENCH COMMUNITY PROJECT, un’iniziativa no profit che oggi colora tutta l’Alta Langa con installazioni fuori scala pensate per assaporare questo patrimonio seduti qualche metro da terra. Ma non c’è tempo da perdere, Guarene è pronta a riceverci sotto la guida del giovanissimo Michelangelo Mammoliti. Schivo ma sicuro di sé, ci chiede di seguirlo nel peregrinaggio aromatico che ha previsto per questa seconda tappa, centellinato tra l’orto, la serra protetta e il vigneto coltivato sul parco interno della Madernassa, il ristorante diretto da Michelangelo.

Entriamo nel suo orto a caccia di vegetali nostrani e forestieri: «Qui custodisco tutte le mie erbe, protagoniste della mia cucina. Essenzialmente una cucina della memoria che mi sprona a pescare nell’anticamera remota dei miei ricordi. Detto in termini tecnici si tratta di neurogastronomia, ma in pratica è una zucchina Golden che, cotta in un’estrazione di verdure rosolate, restituisce consistenze carnivore e mi riporta alle grigliate della domenica». Mangiare per ricordare quindi, ed è quello che accade ai nostri neuroni mentre Michelangelo ci serve il suo Manzo in carpione con un aneddoto di contorno: «Per far sì che il carpione – che non è solo una tecnica di mantenimento, ma è anche il nome di un pesce simile alla trota di lago – durasse nel tempo, gli allevatori piemontesi iniziarono a immergerlo in una marinata acida a base di aceto, da cui poi deriva la tecnica che tutti conosciamo». Abitudini che sono diventate tecniche, e che ai tempi diedero il La al decollo industriale del Piemonte. E così Michelangelo dimostra di trattenere questa memoria del territorio in un manzo cotto in carpione, rosolato e deglassato con aceto, avvolto da un velo di carpione di lago. Un trionfo che parte ittico, coronato con una botonette di manzo, impanata, affumicata, fritta e coperta da un gel di carpione. E l’antica tradizione torna finalmente a casa in compagnia di un baldo giovane. Ma allora lo chef quanti altri giovani talenti potrebbe segnalarci in questo itinerario? Uno, due, tre, anzi quattro! «Emanuel e Katharina, Max e Cristina, culture differenti e percorsi opposti, due coppie unite non solo dai fornelli, che gestiscono l’attività fedele alla tradizione piemontese de l’Osteria Veglio di La Morra. Assolutamente in Langa style». Ma c’è anche un’altra giovanissima coppia che, in questa piccola frazione, apre il sipario su panorama strettamente enologico. È impossibile infatti pensare alle Langhe senza associarle ai riflessi granata di Barbera e Nebbiolo, uve che hanno visto la loro prima vendemmia nel 2019 sul fazzoletto di terra acquistato da due giovani torinesi nel cuore di La Morra, Lara e Luisa, che hanno dato vita all’Azienda Agricola Lalù, dopo essersi impregnate di esperienza e fatica nelle vigne argentine e nelle cantine della Borgogna. Due ragazze nemmeno trentenni, insolito ma possibile, che firmano con audacia questo incredibile scorcio sulla meglio gioventù langarola.

TERZA TAPPA: ALBA E L’APPUNTAMENTO CON CRIPPA

Ci allontaniamo dall’Alta Langa, fino a scavallare la riva del Tanaro e scoprire Alba, capolinea di questo itinerario scosceso. Passiamo tra i banchi costipati del mercato albese, facendoci largo tra le verdure e le bigonce cariche d’uva lungo tutta la Via Maestra, fino a sorpassare lo storico Caffè Calissano e svoltare in Piazza del Risorgimento. Enrico Crippa ci aspetta in macchina per portarci ai piedi della Tenuta Monsordo Bernardina, nel suo regno a pochi kilometri da Alba: l’Orto. Saliamo di corsa, mentre Enrico sfodera un sorriso composto all’uomo elegante che varca la soglia del Piazza Duomo. Lo chef accende il motore e non si trattiene «Lui è Bruno Ceretto. Mi ha “scelto” vent’anni fa, se così si può dire. Devo ammettere che il contatto è stato curioso, perché nel 2003 lavoravo all’Albereta, ma sentivo di dover cambiar strada. Per caso, parlando con Cracco, grande amico in contatto con la famiglia Ceretto già da tempo, mi accenna che il signor Bruno è in cerca di qualcuno in grado di far crescere il ristorante di Alba. Gli venne in mente di fare il mio nome, e Bruno gli rispose Ma è bravo quanto te?, e lui senza esitare Beh, no. Di più».

Da qui il rapporto con i Ceretto prende piede, e la famiglia va incontro alla passione dello chef per il mondo vegetale, fino a dedicare un pezzo della tenuta alla realizzazione dell’orto. Quella di Enrico è una passione che rimbalza fra l’orto e il mercato delle verdure, dove lo chef è ormai di casa: «Non è come andare al mercato del pesce, dove si urla contro qualcosa che ormai non c’è più e non ci può sentire. Al mercato della verdura c’è un silenzio religioso, perché si tratta di qualcosa che è stato raccolto, che potremmo riseminare e far vivere di nuovo». Ogni giorno questo appuntamento, prima di godersi la quiete del mattino langarolo nella sua dispensa vegetale in cui ci fa entrare in punta di piedi: «L’orto scandisce la mia giornata, anche se ammetto che sia uno sforzo fisico non da poco. Ma adoro passare il tempo qui, ragionare e comprendere tutta la sua generosità. Mi insegna a rapportami alla crescita della verdura che, non sembra, ma corre come Bolt: devi raggiungerla e sperare che il tempo sia a tuo favore». Enrico ha sviluppato una percezione tale da creare un dialogo vero con il suo orto, che gli ha permesso di emergere in una terra principalmente carnivora, legata alle proteine animali dei grandi classici, tra crudi di fassona, agnolotti rigonfi, teneri conigli e brasati tinti di Barolo. Con una sterzata ha svoltato il regno vegetale, ancora silente, senza accantonare la tradizione ma ribaltando il sistema: un twist che ha convertito la verdura per depennare il suo ruolo di gregario e assegnarle l’attenzione che meritava. Una mossa stimolata in parte dalla necessità: «“Enrico Crippa”, quando abbiamo aperto, era solo quello che aveva lavorato da Marchesi ed era stato introdotto al Piazza Duomo da Cracco. Con una ventina di piatti in carta, il pubblico femminile chiedeva sempre l’insalata. Ma possibile che nessun piatto potesse far scattare qualcosa? Vuoi vedere che se scrivo insalata nel menu, magari la ordinano?» E così è stato con Insalata 21-31-41…, servita in un contenitore che potesse farla gustare “verticalmente”, dall’alto delle erbe in purezza, al basso disperso in una discesa tra foglie e germogli conditi. Dopo queste rivelazioni, siamo pronti per dare atto alle tre stelle che calcano l’insegna del Piazza Duomo, con il generoso Inizio: una selezione vegetale che affolla l’intera tavola e rivendica l’antipasto di un tempo, servito nella delicatissima sala rosa. Un’abbondanza che piace al piemontese, il bastian contrario che non tollera le mode food e si appella a un perenne ricongiungimento con la tradizione, tenuto vivo dalle generazioni passate. Sono gli anziani infatti, Old School del gusto, che per primi possono sparar sentenza sui piatti di Enrico: «A prima vista schivo il loro indispettito A l’è nen parei! (Non è mica così!), che dopo l’assaggio verte in Eh no! Va bin, a l’è propi bon. Sono riuscito ad avere il loro lasciapassare anche sulla mia Crema di patata, servita con uovo di quaglia affumicato nel tè cinese. È una trasposizione concreta di quel sentore legnoso che mi rimaneva addosso quando andavo a trovare i piccoli produttori. Le loro case sanno di camino, d’inverno ma anche d’estate. Era un odore che mi rimaneva addosso ma soprattutto in testa». Sensazioni che si lanciano in un salto temporale dentro quelle note affumicate di Lapsang Souchong, il tè che riscaldava le sue giornate nel Paese del Sol Levante e che si abbina naturalmente alla purezza della patata. Ma torniamo alla nostra culla langarola. Enrico fa un passo indietro sul dessert. Vuole farci provare l’esperienza di una vera osteria piemontese, portandoci al pian terreno del ristorante. Ad accoglierci è la sala de La Piola – altro progetto nato dalla collaborazione tra lo chef e i Ceretto – dove per tradizione i bicchieri raggiugono l’orlo e i piatti servono il territorio a occhi chiusi. Qui la cucina obbedisce al mercato, diretto dal volere delle stagioni, e rispetta gli insegnamenti materni di Piazza Duomo da cui ha preso tutta la tecnica. Chiudiamo questa degustazione d’autunno con un dessert di casa: il Gianduiotto de La Piola, semplice ma estremo. Tratti ereditati dallo strettissimo rapporto con Enrico, che stagione dopo stagione ha mantenuto fertili queste terre pluricoltivate. Un fermento che ha colorato anche tutto il nostro itinerario – ormai prossimo alla fine – dietro le orme di Palluda, gli aneddoti di Mammoliti e un’ultima chiacchierata con Crippa. Tre grandi chef e uno scavallare dentro secoli e secoli di generazioni, in un territorio che ha buona memoria della tradizione, ma ogni ora muta secondo natura. L’unica a dettar legge.

Pubblicato su ItaliaSquisita n° 37, in Itinerario, foto di Matteo Bagnasacco, Anna Brignolo, Marco Varoli, Bruno Murialdo, Fabrizio Marchesi, Lido Vannucchi, Francesco Gili, Tino Gerbaldo, Davide Dutto, Niccolò Brunelli, Daniele Mari, Stefania Spadoni. 

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