Concesio 2013 e qualche centimetro di neve fresca. Il profilo di chef Philippe Léveillé, dietro l’alta vetrata del Miramonti l’altro (BS), è in attesa di ricevere alcuni stagisti francesi e l’ultima arrivata della brigata, Arianna Gatti. Lo chef l’accoglie con un distratto «Bonjour, bienvenue…», scambiandola per un’apprendista alle prime armi, con il suo chignon scomposto e una valigia gonfia di tesori d’Abruzzo. D’altronde è da lei esordire così, senza bussare, sulla porta del ristorante come in cucina.
Lei, che non appena ventenne lascia Forme, una frazione di 500 persone incastonata tra le appendici dei monti abruzzesi, per intraprendere finalmente la sua strada. Perché se è vero che tutte le strade portano a Roma, quella dell’indipendenza non fa eccezione. Giovanissima, si tira su le maniche nelle cucine della capitale, per poi studiare sui banchi della scuola Alma, seguire Paolo Teverini, scoprire la cucina di Bologna e restare in quella di Brescia. Una maratona che l’ha portata dritta fino al Miramonti l’altro al fianco di Léveillé, con cui intraprende un percorso di crescita che la rende sous chef a neanche trent’anni. È proprio qui che, giorno dopo giorno, si lascia travolgere dalla semplicità del maestro. Basti vedere il suo raviolo liquido: una trama povera fatta solo di farina e tuorlo d’uovo, ripiegata in quattro dischi dorati ricoperti da una trippa di baccalà che irradia il palato con l’assoluto di cipolla. Un raviolo che scuote la bocca con una ventata d’aria fresca, spinta da germogli di anice, gocce di sambuco e zeste di cedro. Un ricordo del corredo mnemonico d’infanzia? Poco probabile, perché contrariamente a ciò che si può immaginare, non tutti gli chef da bambini impastavano da mattino a sera.
Arianna da piccola preferiva giocare sotto il tavolo della cucina con aria distratta, allungare di tanto in tanto la manina e rubare qualche tagliatella ammassata tra la farina. Oggi invece la cucina è diventata una scelta di vita per lei che, così convinta e audace, dopo ben otto anni al Miramonti l’altro, è quasi riuscita ad allontanare lo chef dal suo “marchio di provenienza”, meglio conosciuto come burro francese. A casa Léveillé le porte restano aperte su ogni fronte, perché come suggerisce anche la chef “ciò che fa da perno a tutto è il ritorno all’essenziale”. Alla cucina semplice, quella che anche sotto lockdown è sopravvissuta come nessuno, sorretta dalla sua naturale forza secolare. E questa donna lo sa, perché ha sempre remato verso il passato per riportare a galla tradizioni autentiche, facendo leva sulla leggerezza. La stessa che restituisce a ogni piatto, in cui confessa delicatezza e resistenza, i suoi intramontabili cavalli di battaglia. Arianna segue in ogni caso il suo fil rouge e lo dimostra giocando con consistenze diverse nel suo trittico di anguilla: affumicata a freddo, marchiata con tre nei di aceto balsamico di Modena, in carpione, raccolta in una cipolla di Cannara, e liquefatta, diluita in un cocktail Martini da stemperare con un cubetto ghiacciato di lattuga di mare. Un elogio ittico che lei definisce “Biscotto di anguilla”.
Stessa cura anche per il Caldo freddo di polpo cotto con cipolla e pomodoro, da cui ottiene una gelatina che monta e spalma sul fondo del piatto, inebriata con una spirale cremosa di peperoni pequeño. Di fatto, un concentrato servito freddo che sfila in tavola con il suo omonimo in tempura, arricchito con curcuma, Savagné e prezzemolo.
Da qualche anno la cucina di Léveillé ha riposto in dispensa tutto ciò che non viene ritenuto necessario, tanto da
discostarsi, almeno per il momento, da ogni sorta di tecnica molecolare. Una scelta controtendenza, di chi non si lascia distrarre da fermentazioni e sferificazioni, suggerita forse dall’identità anticonformista di Arianna.
Già, una donna sicura di sé, con un savoir-faire che fa eco alla gentilezza di una ragazza spontanea, capace di catturare l’attenzione a modo suo.
Tratto da Italia Squisita n.39, photos by Nicolò Brunelli.