Milano Mediterranea

Provare e riprovare fino a provocare la meraviglia. La tecnica replicata oggi nella cucina del 28posti di Milano. Marco Ambrosino prova a entrare nel mondo della ristorazione e a uscire dalla facoltà di economia, iniziando dal Melograno di Ischia di Libera Iovine, dove avviene un reset completo di tutto ciò che ha imparato. Poi è la volta di Barcellona, di tutta l’influenza spagnola di quegli anni ancora intrisa dell’avanguardia di Adrià. È allora che impara l’altro significato di “chef”, al Noma, dove intuisce che attraverso il cibo si può parlare d’altro, ma anche che la cucina è il risultato di un processo sociale. Marco dà così il via a uno studio antropologico, corredato da un’indagine storica e continue prove che realizza concretamente nella cucina affidatagli dai proprietari del 28posti nel 2014. Nei piatti racconta la sua Procida fino a rendere vivente un Mediterraneo ormai vissuto, figlio di una tradizione millenaria dallo stampo greco-marocchino. Attualizza le tecniche insieme alla sua brigata che, “Eccezionale chef, ma non è da noi!”, lo porta a disfare e rifare, ragionare ed esser fertile nella reintepretazione della tradizione. Riesce a fare parlare la stessa lingua a tutta la cucina senza aprire bocca, dimostrando che per raccontare il Mediterraneo bastano materia prima, intuito e coraggio.

Ma serve anche una certa disponibilità mentale che al 28posti non manca né in cucina né in sala: pareti con legno assemblato dai detenuti di Bollate, lampade ricavate dal PET e tavoli in ferro reinventati in laboratorio. Un arredo che riflette il carattere aperto e dinamico della sua cucina, “senza scarti” perché semplicemente non ne genera: al 28posti si cucinano solo animali di cui il sacrificio è totale, come l’agnello che risponde all’appello in ogni menu. Al momento viene servito in un trittico scomposto in terrinacevapcici e borek: un mix tritato in diverse grane, una polpetta rimontata sulle ossa dell’agnello e una lasagna condita con un ragù cartilagineo. Per Marco non esiste un taglio più nobile dell’altro e nemmeno una conoscenza univoca dell’ingrediente: scommette sull’identità della materia guardandola come fosse la prima volta, un approccio che lo porta verso l’ignoto, dove sarà appunto la scoperta, e la sorpresa, a condurre verso un risultato inatteso. Come nel caso dello sgombro, quando la spora Aspergillus luchuensis ha impresso note citriche sul pescato senza il mimino utilizzo di agrumi. Continui e infiniti esperimenti di cui “solo” 120 in menu, con una produzione totalmente handmade che comprende conserve, aceti e perfino cacao, creato con lo stesso grano di Tumminia utilizzato per produrre anche il pane. Marco elogia la semplicità anche quando presenta una rapa, gialla, bianca e di Chioggia, in un’insalata condita con succo di cavoli fermentati e olio di argan decantata con del tartufo nero, una perla disponibile tutto l’anno e quindi una scelta più sostenibile rispetto alla versione bianca tipicamente invernale. Per lui la sostenibilità è un cerchio che va chiuso insieme a tutti i suoi attori, dipendenti, collaboratori e clienti, e che senza il fattore umano non esisterebbe. Le scelte della sua piccola cucina forse non faranno la differenza nel panorama della ristorazione, ma non lasceranno nemmeno indifferenti su ciò che vi accade.

Se infatt in cucina è normale “buttare” la pasta con leggerezza perché tanto costa poco, 28posti la butta sotto i riflettori con un trattamento a base di spore e fermentazioni che tramonta con l’aggiunta di un miso di ceci neri: macinato come una spezia, il miso restituisce un sapore lattiginoso allo spaghetto travestito ora da cacio e pepe, ma senza addosso né uno né l’altro.

In ogni piatto al 28posti c’è una storia. Marco se ne inventa una ogni giorno per tramandare il passato e sostenere il futuro. Tanto vale prendere posto e ascoltarlo per conoscere ciò che fu, ma nel menu di domani.

Tratto da ItaliaSquisita, IS n°35 Foto di Marco Varoli, Gaetano Berni e Delfino Sisto Legnani