Shut up and eat me

Shut up and eat me. Se i suoi piatti potessero parlare, risponderebbero così. Jeremy Chan ne ha presentati due a “Contaminazioni”, format al debutto alla quindicesima edizione di Identità Milano, nel marzo scorso. Entrato e uscito dalle cucine di Rene Redzepi, Claude Bosi e Ashley Palmer Watts, Chan apre Ikoyi a Londra con l’amico d’infanzia Iré Hassan (direttore del locale), un ristorante che spoglia gli ingredienti nigeriani per vestirli con una collezione disegnata su misura. «In realtà sono stato poco più di 48 ore in Africa, ma con Iré abbiamo voluto concentrare tutta la nostra cucina sulla sua città d’origine: Lagos». Una cucina che, anche se rassicurata dal luminoso riconoscimento Michelin (2019), vuole provare adrenalina tutti i giorni. «Oso, sperimento, rischio, ma c’è una forte intuizione nel mio piatto. Io credo veramente nell’idea». Jeremy non ci pensa mai due volte: imprudente in cucina come nella vita, quando sperimenta rischia tutto.

Per qualche anno indossa l’abito in banca, filosofeggia per un po’ in facoltà e alla fine cede alla toque in cucina. Qui sfoga le sue doti con estrema umiltà, senza esprimersi attraverso piatti esoterici. Ricrea il sapore in una sinergia di ingredienti serviti con un contorno di deliciousness. «Questa parola in italiano non esiste. E’ un compito, è creare esperienza per l’ospite». È il suo condimento segreto che condensa originalità, rischio e responsabilità. Una vinaigrette servita dentro i piatti silenti di Ikoyi, che arrivano in tavola in punta di piedi senza distrarre la vista.

«Il ristorante è come un teatro. La luce, la consistenza della tavola, il suono del piatto nel posarsi, tutto è pensato. È esperienza d’arte, ma sarebbe pretenzioso chiamarla così». Creazione del sapore, consistenza sconosciuta e sensibilità folle: Ikoyi è uno dei podi più invidiati di Londra. E il palato è spiazzato. È alienato da Superficie di Marte, un piatto con due semplici isole in realtà affollatissime: ci abitano 54 ingredienti lì dentro. «Io prendo ispirazione da tutto, dalla vita, dall’arte, da qualsiasi cosa bella». Un’estetica ingegnosa, quanto semplice, che sfrutta forme geometriche per mantenere l’integrità dell’ingrediente, robotica ed essenziale, ma più di tutto impeccabile.

Superficie di Marte, come il resto, è poesia surreale. «Immagino l’ingrediente nel vuoto: senza cultura, né origine, vergine. Mi alieno di proposito, non leggo, non guardo come si usa, ma reagisco con l’istinto per dargli una nuova identità». Jeremy si estrania dall’ingrediente, non lo riconosce, come se non lo avesse mai visto prima. Tutto ciò che lo riguarda, le sue radici, l’uso, l’accostamento, è tossico per la creatività. È l’alienazione il trampolino che gli permette di raggiungere l’originalità, la possibilità di disconoscerlo per dargli una nuova memoria. E l’ospite quando vede il piatto va in corto circuito, pupille, narici e palato si scordano di tutto e provano a fidarsi.

«Pensare, pensare, pensare: la ricetta per me è un processo di ricerca. La penso, la scrivo e la cucino per i miei ospiti, senza fare prove». Jeremy compie una ricerca ossessiva dentro la biblioteca più completa e complessa che esista: la testa. Ogni ricetta viene concepita nella sua mente per nascere solo in tavola: l’ospite sarà il primo teste. E, anche se nel piatto mette in scena pochi soggetti, Mr. Chan richiede allo spettatore di versare tutta la concentrazione su di loro. Un approccio artistoide? Sì, confessa di averlo rubato ai quadri di Velasquez, quelli che puntano tutto su un solo protagonista. E Jeremy è già al lavoro per “la prima” del prossimo personaggio. 

Pubblicato su Identitagolose.com

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